Del Piero a “Federico Buffa Talks”: «La Juve, le cadute, le vittorie, il mio futuro e non solo: vi dico tutto» | OneFootball

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Juventusnews24

·8 November 2024

Del Piero a “Federico Buffa Talks”: «La Juve, le cadute, le vittorie, il mio futuro e non solo: vi dico tutto»

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Del Piero ospite di “Federico Buffa Talks”: lo storico ex capitano e numero 10 della Juve si racconta in un’intervista. Le sue parole

Alessandro Del Piero si racconta. L’ex capitano della Juve è l’ospite al centro dell’ottava puntata del “Federico Buffa Talks”, dove si celebrano i 50 anni dell’ex numero 10 bianconero. Uno speciale in cui Alex ripercorre la sua carriera, intervistato dal noto giornalista e da Federico Ferri. Juventusnews24 ha seguito LIVE l’evento.


PASSAGGIO DI CONSEGNE CON BONIPERTI – «Il primo incontro fu a Udine. Dai 16 anni in poi si è parlato di Juve e Milan. Poi per l’amicizia con Aggradi, o perchè ci aveva visto lungo verso la fine della stagione, prima che andassi alla Juve, andai a Udine che era il posto più vicino per andare a vedere la Juventus. Era la prima volta per me, in più avevo l’appuntamento con Boniperti. Le società avevano chiuso l’affare. La nomea di Boniperti ha rispetto anche per il presente, è una persona vincente sotto tanti aspetti, oltre che recordman. Io mi approcciai poi per la prima volta a un procuratore. Entriamo nel suo ufficio “Ok Del Piero firmi qua, poi la cifra la metto io”. Io a 18 anni vado a dirgli qualcosa? Io stetti zitto e firmai in bianco, poi mise le cifre e i 5 anni di contratto. Per e andava bene tutto arrivando dal nulla, a 18 anni ero alla Juventus. Poi sono uscito con il mio procuratore, ci eravamo “preparati”. Conversazione invece molto semplice, grazie e arrivederci».


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FIRMA IN BIANCO E ULTIMO CONTRATTO  – «Sono stati due momenti totalmente diversi, ma uniti da questa simbologia. Quella decisione nasce da alcuni mesi tortuosi. La squadra andava male e si parlava tanto del mio contratto sulle prime pagine, soprattutto dal punto di vista economico, delle pretese, dei guadagni… Io avevo sempre sottolineato come non fosse quello il problema, probabilmente era fatto anche per mettermi un po’ in cattiva luce. Forse c’era troppo da perdere, io sono uscito consapevole di quello che facevo. Per questo motivo ho poi annunciato pubblicamente che avrei firmato in bianco. E’ una decisione che nasce però dal 2006, dopo la retrocessione in Serie B. Lì è iniziato un percorso che ci ha visto finire nel baratro, ma che io non volevo accettare. Il mio desiderio era lasciare una Juve vincente come l’avevo trovata io all’inizio. La mia idea in quel momento era quella di vincere ancora. Nel 2011 quindi ho firmato in bianco per togliere tutti i dubbi sul mio conto, le mie motivazioni erano solo legate al campo e al legame con la Juventus. Quello che mi è successo in 19 anni con quella maglia ha dell’incredibile».

SERIE B ED ESORDIO A RIMINI – «Volevo concentrarmi sulla partita, l’odore di piadina e di salsiccia… E’ una battuta ovviamente. Entrando in campo pensavo che solo un mese e mezzo prima ero a Berlino a sollevare la Coppa del Mondo. Ero comunque sereno perché essere lì in Serie B era una mia scelta, quando fai una scelta tu tutto il resto conta poco. E’ stato un capitolo totalmente diverso da quello a cui ero abituato. Il momento era drammatico anche per come ci vedeva la gente e per quello che pensavano di noi, con tutto il peso che ci ha portati in Serie B. C’era tanto odio nei nostri confronti, noi eravamo i capri espiatori che sul campo dovevano pagare. Ma ho giocato con compagni straordinari in Serie B, da Galderisi a Di Livio, c’era sano nonnismo. Per la Juve era un momento di ricostruzione, avevamo delle posizioni scoperte e anche la penalizzazione di -17 che ci era stata inflitta in classifica. Per tutte le squadre era la partita della vita, non potevamo permetterci tanti sorrisi. Al Padova io giocai contro Milan e Inter nelle giovanili, noi eravamo lì a guardarli con invidia giustamente, quindi capisci cosa possono provare gli altri e non devi lasciare il fianco a tanti sorrisi».

PRIMI TEMPI ALLA JUVE E “NONNISMO” – «E’ fondamentale fare certi passaggi, capire cosa vuol dire essere dietro, in mezzo o davanti. Per essere davanti devi capire come si sentono quelli dietro. Poi ognuno lo fa a modo suo».

ITALIA DOVE E’ CRESCIUTO DEL PIERO – «E’ il modo di vita che c’era dalle mie parti, lì ancora c’è la voglia dell’aiutarsi nel vicinato. C’è mio padre elettricista che aiuta il vicino muratore a fare l’impianto elettrico e lui che lo aiuta a tirare su un muro. C’è questa volontà, è una regione fondata sul lavoro duro, sul rispetto degli altri. Il nord-est è così, sempre stato così e lo è ancora. Sono stra-orgoglioso di quello che è successo nella mia infanzia, i miei figli ne hanno vissuta una totalmente diversa. Mio padre era elettricista, faceva i turni anche di notte. Mi dava fastidio quando era reperibile la notte, se succedeva un temporale doveva uscire e andare a sistemare i tralicci, era pericoloso. Non volevi sentire tuo padre uscire in motorino e andare in chissà quale posto. Mia madre ha fatto la tata, ha pulito case, era un’epoca dove serviva il secondo stipendio. Sacrifici enormi per far quadrare i conti. Era così. Questo senso del sacrificio, questa dedizione allo stare attenti alle cento lire era viva e presente. Mi ha pesato? Un po’ si, dico la verità. Avere i vestiti di nove anni prima… Nemmeno mio fratello poteva permettersi certe cose. Certe cose le apprezzi dopo, all’epoca mi dava fastidio perchè vai a scuola, c’è il compagno che ha qualcosa di più, quello che ha qualcosa di meno… Sono piccole cose ma fa parte del percorso, è un modo del percorso».

PRIMO DEL PIERO ALLA JUVE – «Prima della prima squadra c’era stata la Primavera, dove abbiamo vinto campionato e Viareggio. Ricordo la semifinale col Padova l’anno prima, quanto mi sono girate a perderla… All’epoca erano cose importanti, quella Primavera era fatta di grandi ragazzi. Il mio primo anno era diviso tra Primavera e prima squadra».

PRIMA DELL’INFORTUNIO DEL 1998 – «C’era la giovinezza, voglia di vincere, di primeggiare, di guadagnare di più. Tutto quello che ti dava stimoli lo mettevi lì. Poi c’è la competizione di per sé, far vedere che sei bravo, che sei forte. Il calcio per me è stato uno sfogo. Lo sport è fondamentale per tutti i bambini, io i miei li ho spinti a fare quello che vogliono. In America nello sport sono più avanti di noi, poi sull’aspetto emotivo si può discutere. Lo sport è meraviglioso. Anche la Champions vinta ha un peso specifico importante. Era un periodo dove c’era tanto cuore. Cuore e istinto erano di gran lunga più avanti della mente, che lavorava sulle responsabilità e il non mollare mai. Io volente o nolente, senza volerlo ho rimpiazzato Baggio».

BAGGIO E TRIDENTE DEL 1994 – «Con lui ho fatto due anni, gli parlavo in dialetto anche se ero molto timido all’inizio. Io avevo 18 anni e lui aveva vinto il Pallone d’Oro. Ho vissuto il suo addio alla Juve che è stato molto doloroso, ero molto dispiaciuto per lui in quel periodo. Io sarei dovuto andare in prestito in quell’estate, si parlava molto del Parma. Alla fine sono però rimasto. Poi l’evolversi della situazione è stato automatico, passato poi dalla sconfitta contro il Foggia dove decidono di passare al 4-3-3, ho iniziato a giocare da titolare con il passaggio ai tre attaccanti. Con quel modulo doveva esserci un grande sacrificio da parte nostra, non eravamo molto abituati e io all’epoca sono passato dalla tribuna alla panchina fisso. C’era la necessità di coprire il campo e alzare l’intensità. Avrei voluto fermarmi anch’io, ora ci sono tanti uno contro uno, devi curare un giocatore. All’epoca coprivi delle zone, se c’era la necessità dovevi correre e dovevi farlo vedere. Sapevamo che in questo modo potevamo vincere, Vialli aveva tutte queste qualità».

SACRIFICIO – «Alla Juve ognuno doveva fare la sua parte, magari anche quella dell’altro. Lo spirito di sacrificio era fondamentale, senza non vai da nessuna parte. Se non dai qualcosa in più di quello che ti viene richiesto sei una persona normale, rispettabilissima, ma io preferisco stare dall’altra parte. Preferisco fare cose in più per l’obiettivo che mi sono prefisso».

ZIDANE – «L’ho vissuto da compagno e da avversario anche per fortuna. La cosa che mi è sempre piaciuta è che c’era un sinergia che non servivano parole, neanche sguardi. Quando giochi in una certa situazione di campo cerchi sempre di sorprendere. Con lui bastava pensarla e si sarebbe trovato nel posto in cui tu avevi pensato di dare la palla. Sinergia unica, Zizou è diventato Zidane alla Juve, poi al Real Madrid magari l’ha dimostrato di più perché ci ha vinto la Champions. Ma la Juve lo ha formato sotto molti aspetti e noi avevamo una squadra che gli voleva tanto bene e apprezzava il ragazzo e il campione».

BATTUTA SU MANCHESTER 2003 – «Mio padre diceva sempre che coi se e coi ma… Anche noi se segnavamo qualche rigore in più nel 2003 vincevamo la finale contro la tua squadra (riferendosi a Buffa ndr.)».

DEL PIERO E TREZEGUET – «David, parlando di giocatori che vanno nel posto giusto al momento giusto, era così. In molti episodi io ero portato a fare l’assist e lui a metterla dentro, lui sapeva dove poi avrei messo la palla. Un po’ perchè ci si parlava, un po’ perchè c’era la connessione. Poi in campo non è che ci ragioni sempre, aveva un istinto killer pazzesco. Era capace di fare, quando necessario, l’assist o di muoversi per crearti lo spazio. Era connesso con la sua squadra, di un’intelligenza disarmante. Dentro l’area poi non so, lui tirava qualsiasi cosa e in qualsiasi modo».

PLATINI IDOLO E I NUMERI 10 DEL PASSATO – «Essendo juventino da piccolo lo imitavo. Ma sono cresciuto in un’epoca non male, c’erano anche Maradona e Zico».

CALCIO DI PUNIZIONE – «Un gesto stupendo, un equilibrio delicatissimo su quello che puoi fare, su come l’altro ti mette in difficoltà con barriera, su come si posiziona il portiere… Ai tempi non c’era il coccodrillo ma nemmeno l’arbitro con lo spray, quindi la barriera magari si avvicinava anche. Con le difficoltà dell’epoca, ma il calcio di punizione ragazzi… Prima di batterla ti fai una piccola fotografia di dove sei. Io negli anni ho cercato sempre di migliorarmi anche sui 30/35 metri, creare nuove traiettorie. Quindi dovevi capire la distanza, la barriera messa, piccoli avanzamenti, che portiere c’è dall’altra parte e che momento della partita è. Devi annusarlo quasi, poi è un attimo».

ANCORA ULTIMO CONTRATTO IN BIANCO – «La mia volontà non era quella di creare tensioni, ma inevitabilmente sapevo che le avrei create».

SOCIETA’ JUVE VISTA DALL’ESTERNO E RITORNO POSSIBILE – «Io credo che una persona, o più di una persona nell’entourage di una società, che abbia partecipato alla storia del club debba esserci e debba ricoprire determinate mansioni. Poi ci sono ragazzi laureati, altri pronti a imparare e altri che non vogliono farlo. Quando vai in campo non sono solo undici giocatori, ci vanno tutti in campo in un modo o nell’altro, anche non fisicamente. Lì porti qualcosa, che si tramuta in qualcosa di vincente. Il legame che ho con la Juventus – e con Juventus parlo di tutte le persone che hanno con me partecipato nel percorso, che … rimane bello come all’epoca – io non lo sporcherò mai con niente, se dovessi mai ricoprire un ruolo in questa società. Questo per quello che dicevo prima, il fattore campo si sente. Non so se è più forte in me la voglia di vincere o l’odio di perdere. Ho la consapevolezza interiore di quello che posso fare, che voglio fare. Mi piacciono le sfide, la competizione, ma mi piace anche avere l’umiltà di dire che c’è qualcuno più bravo di te, soprattutto in certi momenti della tua vita».

CONNESSIONE CON I TIFOSI – «Quando giochi in uno stadio con il pubblico vicino voli, non puoi non farlo. La connessione tra squadra, tifosi e società è la vittoria vera. Altrimenti non si spiega come la Grecia possa vincere un Europeo, con tutto il rispetto per quella squadra».

CADUTE IN CARRIERA E AMORE DEI TIFOSI – «A me piace pensare che se ricevo rispetto e amore da parte di tanti tifosi, anche non juventini, lo è per i successi con la Nazionale e nello specifico per quella corsa epica con la Germania. Ma anche per le scelte che ho fatto, per come mi sono posto. Credo molto in quello che ho fatto. Certi momenti sono dolorosi, in alcuni momenti nulla è più importante del calcio. Poi però ci sono gli affetti, la famiglia. Non dimentichiamo che questa cosa va posizionata nel posto giusto. Se riesci a scindere queste cose vedi la tua situazione anche al di fuori, sei consapevole che puoi sbagliare, che a volte è meglio ammetterlo anche esternamente. Questo è il processo per tornare in alto. Le cadute fanno parte del percorso. A me quello che preme, che piace pensare, è che sono le scelte che ho fatto e come le ho trasmesse che hanno fatto la differenza sul pensiero della gente».

COSA FARA’ IN FUTURO – «Non so ancora e comunque non te lo direi (ride ndr.). Posso confermare che è iniziata una fase due, quella di lasciare a malincuore il ruolo di calciatore e trasportarmi nel fare il genitore, non mi distolgo da quello, consolidando le mie curiosità. Il vedere il calcio oggi dal punto di vista giornalistico, di un allenatore. Poi vedere altre culture come lo sport business americano. Credo fermamente in questo, bisogna sempre approcciarsi alle cose con grande convinzione. Mi piacciono le sfide, la competizione, dall’altra parte bisogna essere umili nel dire che c’è qualcuno più bravo di te in certi momenti della tua vita. Approcciarsi in un contesto con questo è fondamentale, non va bene che esista solo la tua volontà».

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