Fusco: “A Bologna i miei mesi più gratificanti, ho sempre creduto alla salvezza del club. La Champions un’emozione forte, ogni dirigente ha posto un mattone importante” | OneFootball

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·7 gennaio 2025

Fusco: “A Bologna i miei mesi più gratificanti, ho sempre creduto alla salvezza del club. La Champions un’emozione forte, ogni dirigente ha posto un mattone importante”

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La forza, il coraggio e le competenze per affrontare una sfida tanto affascinante quanto difficile e rischiosa: la ricostruzione e la risalita di un Bologna reduce da una dolorosa retrocessione e ormai sull’orlo del baratro. Una sfida abbracciata a pieno dall’avvocato Filippo Fusco, autore da direttore dell’area tecnica di un lavoro mastodontico e cruciale tra giugno e dicembre 2014 per tenere in vita il BFC e rimetterlo sulla retta via, fino alla provvidenziale entrata in scena di Joe Tacopina e soprattutto Joey Saputo. Sulla più recente promozione in Serie A dei felsinei, che fra qualche mese compirà 10 anni, c’è un autografo importante del dirigente napoletano, che in seguito ha lavorato per Hellas Verona, Juventus Next Gen, San Fernando (Spagna) e Spal. Oggi, in attesa di ritrovarlo all’interno di una società, abbiamo avuto il piacere di intervistarlo, constatando come il tempo non abbia affievolito il suo sincero e sentito affetto per i colori rossoblù.

Direttore, è un piacere ritrovarla. L’ultima esperienza alla Spal, conclusa nell’estate 2024: quali sono i suoi piani fra presente e futuro? «Aspetto una situazione che possa essere adatta al mio modo di intendere il ruolo. Nei mesi scorsi ho collaborato con Coverciano, coordinando sia il corso da direttore sportivo che quello da osservatore, ora vado in giro all’estero per una serie di conferenze: la prossima settimana sarò in Spagna alla Liga Business School, invitato a tenere una lezione sul management sportivo. Cerco di diffondere la passione e l’entusiasmo che ho per il calcio».


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Il 9 giugno cadrà il decennale dell’ultima promozione in A del Bologna, di cui lei è stato uno dei principali artefici: che ricordi conserva? «Furono mesi straordinari, senza dubbio i più gratificanti della mia carriera. Mi ritrovai in una situazione davvero particolare e difficile, in tanti pensavano che sarebbe stato meglio mollare anziché tentare la risalita. Invece con l’aiuto, la disponibilità e la passione di tutti riuscimmo a rimettere in sesto i conti del club e a creare una squadra competitiva, ponendo le basi per l’immediato ritorno in Serie A. Ne vado orgoglioso, in mezzo a tanta negatività ero convinto fosse giusto provarci, allestendo una rosa valida per una tifoseria che ci trascinò in maniera totale: porterò sempre con me le emozioni vissute durante quell’incredibile stagione».

Costi da ridimensionare e nel contempo una squadra competitiva da costruire: quali furono i segreti di quel super lavoro estivo? «Una retrocessione genera parecchie scorie, quindi riuscire a cambiare il gruppo è di vitale importanza, senza nulla togliere a chi va via. Riuscimmo a portare a Bologna tanti giocatori motivati, tutti accettarono un ridimensionamento economico in cambio del premio promozione: chi sposò la nostra causa era motivato non solo dalla prestigiosa piazza di approdo ma anche dal poter realizzare un’impresa».

E sul versante dei conti e delle scadenze da rispettare? «Il club doveva rientrare nel parametro P/A (Patrimonio netto contabile/Attivo patrimoniale, finalizzato a misurare il livello d’indebitamento, ndr) entro il 30 giugno e i buoni rapporti con tante società, in primis Inter, Verona, Juventus, Milan e Atalanta, furono determinanti: riuscirono a capire che in quel momento era importante non infierire sul Bologna. Ricorderete ad esempio la cessione last minute di Christodoulopoulos al Verona, quella che ci consentì di sistemare tale parametro: la disponibilità del ragazzo, dei suoi agenti e dell’Hellas resero possibile un’operazione decisiva per la nostra iscrizione al campionato di Serie B».

Quanto fu vicino Zdenek Zeman alla panchina rossoblù? «Io, lui e Guaraldi andammo a pranzo a Roma e dopo pochi giorni trovammo la quadra dal punto di vista contrattuale, per noi era la prima scelta e lui ci diede il suo ok. Non gli nascosi la complessa situazione economica, ma gli dissi anche che ero ottimista e che avremmo risolto i problemi, costruendo una squadra forte anche grazie alla sua capacità di attrarre giovani di talento: il mister avrebbe accettato se non ci fossero stati intoppi amministrativi. Dopo il -1 in classifica (per il ritardato pagamento Irpef del trimestre gennaio-marzo, ndr), che peraltro sarebbe poi stato revocato, non se la sentì più: mi chiese di liberarlo da un accordo personale firmato e decise di andare al Cagliari».

Una delusione poi trasformata in opportunità… «Dopo l’ingaggio di Zeman da parte del Cagliari strutturammo con la società sarda l’operazione Oikonomou-Capello, trasformando l’aver liberato il mister da un impegno morale in qualcosa di vantaggioso per noi. In seguito decisi per Diego Lopez: aveva un ulteriore anno di contratto proprio col Cagliari e lo lasciò sul tavolo per venire a Bologna, mettendosi in gioco coi giusti stimoli».

A distanza di dieci anni la sua idea sulla separazione avvenuta nel dicembre 2014 resta la stessa, ovvero che fosse inevitabile? «Sì, perché quando una nuova proprietà subentra ha il diritto di scegliere il proprio management. Venne assunto un nuovo direttore sportivo (Pantaleo Corvino, ndr), e nonostante avessi un contratto che sarebbe anche stato prolungato di un anno in caso di promozione presi la decisione corretta: se fossi rimasto avrei rischiato di creare un cortocircuito, dato che tutti i giocatori arrivati in estate erano molto legati a me, e la sovrapposizione di due figure avrebbe potuto portare un danno alla società. Dunque mi sembrò corretto fare un passo indietro, in primis per non rovinare il bel lavoro svolto assieme in quei sette mesi. Un passo doloroso ma doveroso: l’interesse superiore è quello del club, oltre ogni vanità e interesse personale».

Che effetto le ha fatto vedere il BFC raggiungere e disputare la Champions League? Si aspettava che l’Europa sarebbe arrivata un po’ prima? «È stata un’emozione fortissima per me e credo per chiunque abbia a cuore questo club, amato non solo a Bologna ma anche in giro per l’Italia e per il mondo. Le tempistiche circa il raggiungimento di determinati traguardi sono difficilmente prevedibili: la dimensione europea è quella giusta per una società e una piazza del genere, ma va detto che oggi ci sono dieci-dodici squadre che possono competere per le coppe. La Roma e il Napoli fuori dalla zona Champions o addirittura da tutto danno la dimensione del lavoro svolto dalla dirigenza rossoblù, specie nell’ultimo biennio. Adesso, dopo l’adattamento ai numerosi impegni, il gruppo ha trovato il suo equilibrio e la media punti simile all’anno scorso lo testimonia».

Sul piano prettamente sportivo come valuta l’operato della dirigenza felsinea in questa decade? «Dall’esterno non è mai facile dare giudizi: il mantenimento e il consolidamento della categoria, l’essersi strutturati tramite l’acquisto di giovani calciatori di valore e una costante crescita che ha portato all’enorme soddisfazione dell’ingresso in Champions League, arrivando a proporre un calcio di alto livello, credo diano un senso pieno al lavoro fatto nel corso del tempo. Se si valuta l’operato dei vari dirigenti in termini di continuità e non mettendoli a confronto, si nota che ciascuno di loro ha posto un mattone importante, e quelli che si sono succeduti hanno avuto l’intelligenza di costruire su quei mattoni fino ad arrivare al punto odierno, il cui grande merito è ovviamente da riconoscere al management attuale».

Provando ad immaginare una seconda squadra per il Bologna, quali sono i vantaggi e le opportunità e quali gli ostacoli e le complessità? «Il maggior vantaggio è la possibilità di far giocare i tuoi giovani calciatori in Serie C, un campionato molto più competitivo rispetto alla Primavera, quest’ultimo da considerare ancora come settore giovanile: penso a Fagioli e Dragusin, fatti esordire nemmeno diciottenni nella Juventus Under 23. Una seconda squadra consente inoltre di mantenere un giocatore sotto controllo, impostandone e monitorandone direttamente la crescita, senza ricorrere a soluzioni in prestito: i casi recenti di Yildiz e Huijsen sono emblematici. Certo nel complesso non è facile, i principali ostacoli sono di natura economica, organizzativa e infrastrutturale».

Dieci proprietà straniere su venti in Serie A: come giudica ad oggi il loro impatto sul calcio italiano? «Bisogna distinguere tra le varie proprietà estere: i fondi, per loro natura, sanno che gestiranno il club per un periodo di tempo limitato, a differenza delle proprietà personali, come ad esempio quelle di Saputo e Commisso. Chiaro che queste ultime sono più vicine ad un modello italiano di presidenza, sia pure portando dal Nordamerica il proprio know-how: è necessaria una mediazione tra le differenze di cultura sportiva, accettando gli stimoli che possono arricchire a vicenda».

A suo avviso riusciranno a migliorare la qualità della nostra governance calcistica? «Non voglio addentrarmi in ambiti che non mi competono, io sono un dirigente sportivo e non un politico. Certamente sarebbe ideale riuscire ad avere una Lega ben strutturata e che agisca come una Confindustria del calcio italiano, ragionando da organismo unitario e non come compromesso fra vari punti di vista. Ma non è affatto semplice».

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